di Francesca Sanesi
Ho letto che il collettivo francese Obvious ha sviluppato un
software di intelligenza artificiale che ha generato, grazie ad un algoritmo,
11 ritratti derivanti dall’analisi di 15.000 dipinti realizzati fra il XIV ed
il XX secolo. Il “Ritratto di Edmond de Belamy” è stato battuto all’asta da
Christie’s al prezzo di 432mila dollari.
Obvious usa
GAN – Generative Adversarial Networks, due algoritmi che competono. Il
"generatore" crea nuove immagini, cercando di far credere al
"discriminatore" che le immagini generate siano reali. In un post il collettivo spiega che i GAN analizzano le immagini, “imparano dalle loro caratteristiche e sono addestrati con l'obiettivo di creare nuove
immagini che non siano distinguibili dalla fonte di dati originale. Questi
modelli sono in grado di escludere qualsiasi immagine che non è rilevante (cioè
che non ha abbastanza caratteristiche in comune con gli altri). Inoltre riproducono la nozione di novità. Anche con gli stessi input,
l'algoritmo restituirà ogni volta un risultato diverso. Questo riflette una
caratteristica di creatività umana”. E così
via sino, potenzialmente, a riprodurre tratti della personalità dell’autore
nella creazione. In sostanza, “la
creatività può essere suddivisa in fasi di crescente complessità”. Gli algoritmi
non sono ancora in grado di coprire tutte queste fasi.
Pierre Fautrel,
co-fondatore di Obvious, dice che il collettivo ha dato vita al “ganismo, un movimento artistico nel
quale uomo e macchina collaborano al fine di massimizzare lo spirito creativo”.
Rileggo su Vita una
recente riflessione di Marco Dotti, il quale, con riguardo all’Intelligenza
Artificiale, afferma la necessità di “ripensare a un’etica che abbia
l’umano al centro e non alla periferia – in cui rischia di essere confinato –
del sistema”, un’etica generale (for good or not for good in relazione alla
visione dell’uomo che sapremo scegliere) e un’etica particolare. In ogni caso,
dice Dotti, vi sono ambiti sui quali non possiamo lasciare che si “inneschi
un processo irreversibile di deleghe in bianco su interventi che vertono sulla
sussistenza stessa della vita umana (…), non meno che su valori, relazioni, visioni che
sono alla base del legame civile”.
E l’arte? Dentro quale sistema
di valori stanno l’arte e il processo creativo che la genera? L’esperimento del "ganismo" fa temere che la creatività umana possa essere uguagliata e,
addirittura, superata dalla complessa interazione di algoritmi che leggono
dati? È questa una minaccia alla esperienza profonda, gioiosa, drammatica,
sofferta, istintiva che è la creazione artistica? Credo di no. Non c’è di che
temere, ma certamente di che interrogarsi.
Io penso a monsieur Daguerre,
alla lunga storia di prove fallite ed invenzioni che hanno finalmente portato
all’istante in cui un’immagine si è fissata su una superficie. La fotografia ha
messo in pericolo l’arte? In realtà ne è divenuta una nuova forma. Oggi ci sentiamo
un po’ tutti straordinari fotografi ma, fortunatamente, i McCurry e le
Leibovitz ci ridimensionano nel nostro ruolo di piccoli utilizzatori di device
ultra intelligenti e filtri preimpostati. Il deep learning affina sempre più le
capacità di traduzione automatica, ma mi domando quando e se arriveremo mai, in
questo modo, a qualcosa di anche solo lontanamente simile ai Lirici Greci
tradotti da Quasimodo.
Sono sempre appunti un po’ scomposti
i miei, non è ancora perfetto l’algoritmo che analizza i big data (ricordi,
sensazioni, immagini, odori, dolore, felicità, amore, pregiudizi, libertà)
nella mia testa. Dunque, mentre sfido una qualunque intelligenza artificiale a processare
e cercare di riprodurre il mio stream of consciousness, concludo che c’è da avviare
una riflessione anche sul rapporto fra arte e IA, domandandosi innanzitutto se
serva (anche) questo ad “aumentare” la nostra umanità.
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