di Francesca Sanesi
Qualche
giorno fa era a Taranto, ospitata dalla Camera di commercio per cui lavoro, su
iniziativa del locale Liceo Battaglini, la giornalista del Corriere della Sera
Viviana Mazza. Era stata invitata per parlare del suo primo libro “Storia di Malala” ad una platea di studenti, studentesse e insegnanti. Quasi tutti
conoscono Malala Yousafzai, giovane pakistana, “Premio Sakharov per la libertà di
pensiero” nel 2013 e “Premio Nobel per la Pace” nel 2014, che da bambina ha
pagato a carissimo prezzo la libera espressione della sua intelligenza: durante
l’occupazione talebana del Pakistan ha aperto un famosissimo blog per la BBC per
parlare del regime e, fra le altre cose, dell’importanza dell’istruzione, negata
in quel periodo per editto. Quando poi i talebani sono andati via, un uomo ha
provato ad ucciderla per punirla di quella scandalosa fama, ma lei, dall’Inghilterra
dove i genitori l’avevano portata per curarla e difenderla, è rinata. Oggi è un
simbolo, ma non ha perso la sua umiltà e continua a battersi per i diritti e contro l’integralismo.
Un
simbolo, Malala, che Viviana ha raccontato in un libro per ragazzi, avviando
con lei una serie di storie di bambini e bambine. Non solo storie "a lieto fine",
però. Per esempio, in “Ragazze rubate”, protagoniste sono le oltre duecento studentesse
che una notte del 2014 i miliziani di Boko Haram rapiscono a Chibok
in Nigeria per farne mogli e madri. Ragazze rimaste a lungo senza nome, cui
Viviana prova a restituire una identità. Vittime che, in alcuni casi divengono
carnefici per non perdere il potere che, in una società maschilista, è offerto
loro dall’aver sposato un miliziano. Ecco il punto: i racconti di Viviana sono
privi di moralismo, consegnati al linguaggio semplice che serve a trasmettere
emozioni a bambini e adolescenti. E non alimentano pregiudizi, neanche quelli
che vogliono le donne sempre dalla parte giusta, sempre solidali l’una con l’altra;
quelli che beatamente contrappongono il bene al male. Perché se è vero che
Viviana, come molti e molte di noi, sa cosa è giusto, cosa è inaccettabile, il
suo sguardo di giornalista, prima che scrittrice, le consente di accogliere ogni
sfumatura, di capire prima di giudicare.
Io
mi sono fermata ad ascoltare le vicende di Malala dalla viva voce dell’autrice,
ma poi – mi si perdonerà l’irriverenza – mi sono ritrovata a seguire la sua di
storia, quella di Viviana che dalla Sicilia va a studiare a Torino, negli Stati
Uniti e in Egitto e poi diventa corrispondente Esteri per il Corriere della
Sera e viaggia in Medio Oriente e incontra e ascolta uomini e donne e ritorna
in Italia e scrive, da ultimo “Le ragazze di Via Rivoluzione”.
Di
Viviana che fa sacrifici e rinuncia a molte cose per realizzare ciò che vuole,
che è fiera del suo percorso e che invita i ragazzini e le ragazzine che ha
davanti, qui, a Taranto, a non auto-confinarsi in un mondo piccolo, ma ad avere
ambizioni, a seguirle.
Di
Viviana che racconta, per esempio, la storia di una bambina coraggiosa, e serve
coraggio, però, anche a scriverla quella storia. Di Viviana che, a un certo
punto, dopo aver parlato delle donne di Kabul, delle attiviste saudite, delle
resistenze di società maschiliste, di omicidi efferati e di conquiste femminili
ancora tutte da dimostrare, ci dice: “ora scusatemi, ma io devo andare da mia
figlia”.
E
io penso che anche i miei figli mi aspettano e identificarsi in un comune
sentimento è un attimo. Un fugace momento di immedesimazione sarebbe, però, riduttivo.
La mia idea, e non credo di avere troppo torto, è che chi era lì, l’altra sera,
l’ideale l’ha riconosciuto in Malala,
ma il role model – chiamiamolo così –
l’ha trovato in lei.
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