di Francesca Sanesi
La senatrice a vita
Liliana Segre, lo storico Andrea Giardina e lo scrittore Andrea Camilleri hanno
lanciato un appello per ridare dignità e rilievo all’insegnamento della storia
nella scuola e per favorire la ricerca storica nelle università. L’iniziativa
ha avuto immediata risonanza, soprattutto in coincidenza con la ricorrenza del
25 aprile. Risonanza che non dovrebbe scemare, come mi pare, invece, sempre più
spesso ormai accada per tutto quanto - come questo appello - necessiti
riflessione e costanza e non like da pulsione elementare. Il breve ma incisivo
manifesto, disponibile alla sottoscrizione pubblica, contiene, infatti,
passaggi molto significativi e degni di discussione.
Ad esempio questo: “I
pericoli sono sotto gli occhi di tutti: si negano fatti ampiamente documentati;
si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in
nome della deideologizzazione. Ciò nonostante, queste stesse distorsioni celano
un bisogno di storia e nascono anche da sensibilità autentiche, curiosità,
desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. È necessario
quindi rafforzare l’impegno, rinnovare le parole, trovare vie di contatto,
moltiplicare i luoghi di incontro per la trasmissione della conoscenza”.
Con immenso
rispetto, concordo solo in parte con l’idea che le distorsioni nascondano un
bisogno di storia o che vi sia un sincero desiderio di conoscenza che non trova
appagamento. Sono, invece, molto d’accordo con la necessità di moltiplicare
opportunità e luoghi, di certo adattando didattica e linguaggio ma, aggiungo,
senza mai cedere alla tentazione della semplificazione, della rinuncia alla
complessità, anche linguistica (cosa che naturalmente non ipotizzano gli autori
dell’appello). Credo, infatti, che il progressivo abbandono del testo storico e
storiografico e la resa a rappresentazioni semplicistiche, esageratamente
elementari, per immagini, schedine, pop up, abbiano man mano svalutato il significato
e la didattica di una materia che io ritengo essenziale per diversi motivi
(alcuni dei quali ho evidenziato in un mio post di febbraio).
Quella svalutazione oggi è al parossismo.
In proposito parlerò di tre aspetti, cui già
altrove ho accennato. Del primo dirò bruscamente: possiamo esprimere consapevolmente
il nostro voto se non conosciamo la storia del nostro Paese e dell’Europa?
Ovviamente io ho una posizione che si potrebbe definire acritica su questo: non
si può e non servono grandi argomentazioni a supporto.
Secondo aspetto: i mutamenti nella produzione e
nell’organizzazione del lavoro derivanti dall’innovazione rendono sempre più
fondamentale l’insegnamento della storia che, al contrario e inspiegabilmente, viene
marginalizzato a poche ore settimanali nella scuola (l’appello che ho
richiamato in premessa nasce anche dall’intendimento del Ministero di eliminare
la traccia di Storia da quelle proposte per l’esame di Stato). Ho riletto
qualche mese fa la “Storia economica dell’Europa pre – industriale” di Carlo M.
Cipolla, edita per la prima volta da Il Mulino nel 1974. Il capitolo sullo
sviluppo tecnologico dall’anno 1000 al 1700 è scritto con la straordinaria linearità
espositiva che contraddistingue lo stile dello storico pavese, senza che gli
manchi il rigore. Quanti di coloro che parlano oggi di quarta rivoluzione
industriale hanno il senso di questa visione retrospettiva? Insomma, si può veramente immaginare di
affrontare la trasformazione digitale senza conoscere il passato e – qui serve un
gioco di parole – senza possedere una visione “storica” del futuro?
Per il terzo aspetto proverò ad essere meno dogmatica. In una intervista a Repubblica, la senatrice Segre ha dichiarato che “Può capitare che nell'ultima classe delle superiori non si arrivi a svolgere l'intero programma e ci si fermi alla Grande Guerra. Invece sarebbe utile studiare i totalitarismi, i genocidi e la complessità di tutto il Secolo Breve”, riprendendo la suggestiva definizione che del Novecento - racchiuso fra la Prima Guerra Mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica - ha dato Eric Hobsbawm. Già lo storico Gianni Perona, professore
ordinario di Storia contemporanea dell’Università di Torino recentemente
scomparso, poneva negli anni Ottanta il problema del confinare la trattazione
della storia più recente all’ultima fase del ciclo scolastico, seguendo lo
schema cronologico tradizionale “società primitive e antiche/medioevo e parte
dell’età moderna/secoli XIX e XX”. Il tema, come dimostra l’affermazione di
Segre, resta di grande attualità, oltre alla circostanza, ça va sans
dire, che siamo nel XXI secolo e che, pertanto, la storia da analizzare,
studiare, interpretare, banalmente, si allunga. Cosa comprimiamo per esser
sicuri che i più giovani non ignorino quanto è accaduto meno di un secolo fa? Ebbene
in gran parte lo ignorano e la storia continua, si fa quotidianamente e loro,
noi, restiamo senza strumenti. La questione dell’antifascismo resta sicuramente
centrale, soprattutto in quest’epoca di recrudescenza di fenomeni fascisti.
Scrivevano Revelli e De Luna nelle conclusioni di “Fascismo/Antifascismo:
le idee, le identità” (La Nuova Italia, 1995) che “in un universo di valori
politici come quello presente, che sembra aver fatto del successo l’unico metro
di misura del valore e, nell’abrogazione del problema dei fini, aver ridotto
tutto a mezzi, quella cultura politica [l’antifascismo esistenziale] può apparire
incomprensibile paralizzante, persino autodistruttiva. Ma non vi è, in realtà,
nulla di tutto questo in essa. Vi è, piuttosto, una forte e sostantiva fiducia
nel corso storico. Una capacità di progetto nel tempo, di proiezione oltre il
confine stretto dell’esistente, e la disponibilità a lavorare sul lungo periodo
con serenità e profondità (il coraggio di non contare ad anni, ma a
generazioni, come scriveva Carlo Rosselli)”. “Storici del presente” li chiamano
Revelli e De Luna, quelli di una generazione che ha saputo costruire le
fondamenta della nostra democrazia. Penso che quel percorso sia incomprensibile
ad alcuni, per altri dimenticato o, appunto, distorto, per molti – i più
giovani – tristemente sconosciuto. Nelle famiglie vi è ancora chi ricorda e
racconta, ma laddove non vi sono memoria e impegno familiari, capita che si
conoscano le origini delle dittature, di tutte le dittature, a 17 anni nel
migliore dei casi, all’Università per chi studierà la storia, mai per chi
prenderà altri percorsi. Ai talkshow o ai social network intendiamo lasciare
questo dibattito?
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